Giovedì 30 gennaio è iniziato presso il tribunale di Milano il processo ai compagni indagati per i cortei e le iniziative successive allo sgombero di COX18. Come collettivo, abbiamo deciso di essere presenti durante ogni udienza sotto il tribunale per rivendicare con forza che quelle giornate sono patrimonio di una intera città e che l’ennesimo tentativo di criminalizzazione dei singoli e della solidarietà portata alle lotte non può essere accettato.
Cox 18 – Calusca City Lights – Archivio Primo Moroni
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Il colore delle percezioni che nel tempo sfumano e non si ricordano più
Processo Cox18 – Resoconto dell’udienza del 27 febbraio 2014
Il 27 febbraio 2014 si è svolta la seconda udienza del processo che vede imputate una decina di persone per fatti accaduti il 22 e 24 gennaio 2014, in seguito allo sgombero del Centro sociale Cox18 di Milano.
A differenza di quanto annunciato al termine della prima udienza, il dibattimento si è svolto nella “Maxiaula” della prima Corte d’Assise, a porte aperte, ma all’imputato in carcere con l’accusa di “terrorismo” dal 9 dicembre. a seguito di una incruenta azione di sabotaggio No Tav. non è stato concesso di uscire dalla gabbia nella quale era rinchiuso. A motivazione di tale scelta, il giudice Raffaele Martorelli recita che «obiettive condizioni di sicurezza ne impediscono la presenza in aula»; poi però, grazie alla reiterata insistenza degli avvocati della difesa e solo negli ultimi minuti, è il capo della scorta di quattro agenti di polizia penitenziaria ad assumersi la responsabilità di farlo uscire dalla gabbia e di farlo sedere non tra gli altri imputati ma a fianco del suo avvocato difensore.
Le quattro testimonianze prodotte dall’accusa hanno riguardato soltanto i fatti del 24 gennaio 2009, per i quali ben cinque persone sono imputate per aver preso parte a un «tentativo di rapina» avvenuto in un negozio d’abbigliamento in via Torino.
Sul primo teste, brigadiere del nucleo informativo dei carabinieri di Milano, gli avvocati difensori avanzano subito un “sospetto di ambiguità”, essendo egli stato presente in aula durante la precedente udienza. Interpellato in proposito, il brigadiere conferma di essere “passato” in aula durante l’udienza del 30 gennaio, ma «solo per qualche minuto, per dire “una cosa” a un mio collega». I giudici della Corte non ravvisano in ciò elementi di irregolarità e quindi la testimonianza prosegue.
Il brigadiere, quel giorno, era di servizio in piazza Duomo, in un “contingente di riserva” che, una volta sfilato il corteo, vi si «accoda». È appunto dalla “coda” del corteo ch’egli notò un gruppo di 4-5 persone “staccarsi” dal corteo ed entrare nel negozio. Prontamente «si è fatto sulla soglia» dello stesso potendo notare altresì «una “persona di colore” portare via un ragazzo», ha «visto» uno degli imputati (che ha riconosciuto, alla lettera, perché «lo conosceva già») dire: «lascialo stare o spacchiamo tutto»; «in effetti», dopo quelle parole, si verifica nel negozio «una confusione tremenda»: «15-20 persone» si dànno ad «azioni» quali il ribaltamento di un bancone e l’abbattimento di alcuni manichini ed espositori; il brigadiere però non sa quali “danneggiamenti” tali azioni abbiano provocato, perché «c’era troppa confusione». Quanto ai riconoscimenti, indica uno degli imputati come colui che ha pronunciato la frase riferita in precedenza, ma «non può asserire» con sicurezza che ce ne fosse un altro, da lui precedentemente «riconosciuto» sulla base di «una percezione che ha avuto». Delle altre 15-20 persone presenti, dice di «non avere cognizione di causa su chi possano essere».
Uno degli avvocati della difesa gli chiede se ricordi che «il ragazzo» “trattenuto” dalla «persona di colore» fosse riuscito a scappare, e lui risponde di sì; se ricordi che lo stesso fosse uscito dal negozio “privo dei beni” che aveva cercato di rubare, e lui risponde che «non sa».
Il secondo teste è proprio la «persona di colore» più volte citata, quel giorno addetto alla sicurezza sia del negozio nel quale avvennero i “fatti” sia del negozio a fianco [quando si dice cumulo di mansioni!]. Allarmato dalla manifestazione in corso, fa abbassare la saracinesca di quest’ultimo, e si dirige verso il primo con l’intenzione di fare altrettanto, ma una volta giunto all’interno del locale «si accorge» che «alcune persone [non ricorda quante] già all’interno avevano preso della merce esposta»; cerca di trattenerne uno, «senza toccarlo», parandoglisi davanti per impedirgli di uscire. In quel momento sopraggiungono, dal di fuori, ancora altre persone, con fare minaccioso, e una di queste gli dice: «Lascialo andare o spacchiamo tutto il negozio». Su questi nuovi venuti, l’addetto alla sicurezza non ricorda molto altro se non che «erano in tanti», «tutti uomini», con una sola ragazza che «orientava le cose da fare».
Messo davanti alle fotografie per confermare i riconoscimenti da lui fatti “in sede d’indagine”, riesce a ricordare come “presente” nel negozio solo uno degli imputati, di cui gli è rimasto impresso che, a “fatti” ormai compiuti, aveva «riportato indietro» un espositore di occhiali da sole che, nel parapiglia, era finito chissà dove. Ad ogni modo, oggi, a distanza di cinque anni dai fatti, non si sente in grado di confermare i riconoscimenti. Quindi conferma quanto reso nel verbale, ma non riconosce le persone, ora imputate, ritratte in due fotografie del verbale stesso.
Il terzo teste è un’ex cassiera del negozio. Accortasi che, mentre il corteo sfilava in strada, «un ragazzo» era entrato nel negozio e aveva arraffato «tre-quattro giacche di pelle», aveva richiamato l’attenzione dell’addetto alla sicurezza. Questi aveva fermato il ragazzo, ma proprio in quel momento erano entrati nel negozio altri ragazzi «facendo casino», con «urla» e «correndo dappertutto». Si trattava di 3-4 ragazzi e una ragazza «sui 20-30 anni». Proprio quest’ultima, si era impossessata di un espositore di occhiali da sole (lo stesso che, anche a detta del precedente teste, sarebbe stato poi «riportato indietro» da uno degli imputati); di questa ragazza, l’ex cassiera, oggi, non ricorda nulla; all’epoca dei fatti le era «rimasto impresso» che «aveva i capelli rossi», come recita il verbale. Conferma di aver sentito la frase «spacchiamo tutto», ma non riconosce la persona che l’ha proferita.
Scorrendo le fotografie per i riconoscimenti, l’ex cassiera non ricorda nessuno degli individui ritratti; solo di fronte a una foto, che ritrae una persona che non è tra gli imputati del processo, dice che è «un volto che le dice qualcosa», e niente di più. Non riconosce nessuno tra coloro che sono seduti al banco degli imputati.
Il quarto teste è un agente del nucleo informativo dei carabinieri che, al momento dei fatti, si trovava a 50 metri dal negozio e «arrivò sul posto» quando «la gente» ormai ne usciva con «tale violenza» che «ha dovuto scansarsi»! In questa folla di persone («una trentina», “precisa” successivamente) che uscivano «con violenza» ha “riconosciuto” (in quanto persone a lui già note) tre degli imputati, ma non ha visto quel che «avevano fatto dentro». Uno di essi, poi aveva «fatto una scritta» sul muro esterno del negozio con della vernice spry. L’agente non entrò nel negozio, ma continuò a seguire il corteo e, successivamente, quando i manifestanti giunsero all’angolo tra corso Genova e viale Papiniano, notò lo stesso imputato autore della scritta nell’atto di “incendiare” «un cestino dei rifiuti».
Al termine di questa testimonianza, il pm Alessandro Gobbis rinuncia a sentire tutti gli altri testimoni d’accusa.
La prossima udienza, nel corso della quale sfileranno i testimoni della difesa, si terrà il 27 marzo, alle ore 9.
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Amare mondanità
Processo Cox18 – Resoconto dell’udienza del 30 gennaio 2014
Il 30 gennaio 2014 si è svolta la prima udienza del processo che vede imputate una decina di persone per fatti accaduti il 22 e 24 gennaio 2014, in seguito allo sgombero del Centro sociale Cox18 di Milano.
Essa si è caratterizzata per l’ampia affluenza di pubblico, accorso, oltre che per solidarizzare con gli accusati, perché l’udienza dava occasione di “reincontrare” o quanto meno rivedere e salutare uno degli imputati, Mattia, che dal 9 dicembre scorso è in carcere con l’accusa di “terrorismo” a seguito di una incruenta azione di sabotaggio No Tav.
Il clima dell’incontro tra i compagni convenuti nella piccola aula 6 della Sesta sezione collegiale penale del tribunale di Milano e il loro beneamato, giunto in aula qualche minuto prima della Corte scortato da quattro agenti penitenziari, è stato il migliore che le circostanze potessero permettere, considerando anche che l’imputato era chiuso in gabbia e poteva rivolgersi al pubblico solo sporgendosi tra una coltre di baschi azzurri. Una volta in aula, la Corte, appena scorto il folto pubblico e posta di fronte all’istanza degli avvocati difensori di fare uscire dalla gabbia l’imputato, ha anzitutto negato il permesso, generando così la protesta dei coimputati e del pubblico. In seguito a queste proteste, la Corte ha intimato lo sgombero dell’aula e, successivamente, la sospensione dell’udienza, aggiornandola alle ore 11, in un’aula più grande. E così ci si è trovati di fronte al paradosso per cui l’imputato agli arresti veniva finalmente ammesso a sedere al banco degli imputati nella “Maxiaula” della prima Corte d’Assise, dove il processo ha avuto inizio a porte chiuse (a norma dell’articolo 472 del codice di procedura penale)(1)!
Benché chiusa al pubblico, un folto drappello di agenti della Digos presente già dalla mattina ha potuto seguire l’udienza in tutte le sue fasi, interloquendo durante le pause in saluti e scambi di convenevoli con il pm Alessandro Gobbis.
In questa situazione si sono avvicendati i primi tre testi dell’accusa, nell’ordine un ispettore capo, un sovrintendente della Digos e un maresciallo dei Carabinieri.
Il primo, invitato dal pm a «descrivere la “situazione ambientale”» nella quale si svolsero i fatti, precisa di non aver partecipato direttamente alle operazioni di sgombero (condotte da un commissario), ma ai «servizi collaterali» e precisamente alla vigilanza «a medio raggio»; le operazioni di sgombero essendo iniziate «circa» alle 7-8 del mattino, la zona «isolata» col blocco delle vie d’accesso a opera di pattuglie di polizia e carabinieri, il suo incarico era quello di «vigilare» sulle «prevedibili reazioni» di una folla ben presto accorsa in solidarietà con il centro sociale sotto sgombero, e che «alle ore 9, “circa”», contava “circa” «100-150 persone».
Le «prevedibili reazioni» cominciano a essere messe in atto dapprima, alle «9-9,30, “circa”», quando un nutrito manipolo di presidianti «fa il giro» per trovarsi a «fronteggiare» un cordone dei carabinieri piazzato all’angolo fra via Troilo e via Conchetta; qui egli assiste ad alcune «intemperanze» e riconosce uno degli imputati, prima, nell’atto di tenere acceso un fumogeno e, successivamente, in quello di «sferrare alcuni pugni e calci» contro un automezzo dei carabinieri.
Dopo questo primo episodio d’«intemperanza», un ben più nutrito gruppo di 100-150 persone dà inizio a una serie di «azioni diversive», spostandosi in direzione della vicina circonvallazione ed effettuando un blocco stradale della durata di «“circa” tre quarti d’ora», fra le 11,45 e le 12,30.
Successivamente, continua l’ispettore capo, la «prevedibile reazione» si fa «meno stazionaria», spingendosi «come spesso accade» in un genere di «iniziative» volte allo scopo, dice, «di portarci in giro», passando per piazza XXIV Maggio, e poi per via Gorizia e via Vigevano, in direzione della stazione ferroviaria di Porta Genova. Non si capisce se in via Vigevano o in via Gorizia, uno degli imputati, lo stesso del fumogeno, viene riconosciuto nell’atto di mettere di traverso alla strada un cartellone pubblicitario (che non risulta essere stato danneggiato dal transitorio cambio di destinazione), col chiaro obiettivo di «causare disagio».
L’ispettore non segnala «altri episodi d’“intemperanza”» fino a pomeriggio inoltrato, quando, in seguito al rifiuto del Sindaco di ricevere una delegazione delle centinaia di manifestanti ora riuniti in piazza della Scala, se ne verifica un altro, nel corso del quale uno degli imputatati viene riconosciuto nell’atto di rovesciare un cestino dei rifiuti e un gruppo di alcune decine di manifestanti blocca la circolazione in via Manzoni «per “circa” un’ora».
Su cotanta “serie” di «prevedibili reazioni», il pm chiede precisazioni circa i riconoscimenti, i tempi e la durata delle stesse. Alla domanda se il fumogeno sia stato solo acceso o anche “lanciato” in direzione del cordone di carabinieri, l’ispettore capo risponde di non ricordare; se fosse stato preso di sorpresa dal blocco stradale sulla circonvallazione, risponde di no, essendo tra le «prevedibili reazioni» a uno sgombero, «una priorità»; se il cartellone fosse stato «divelto» o semplicemente spostato precisa che il cartellone non può esser stato “divelto” perché non era fissato direttamente al terreno ma semplicemente fissato su di un basamento “tipo fioriera in ferro”, che era stato perciò semplicemente “adagiato” e tuttalpiù “fatto cadere” in posizione orizzontale sulla sede stradale.
Per parte sua, il primo degli avvocati difensori chiede all’ispettore capo se fosse a conoscenza dei motivi dello sgombero. Questi si dice convinto che ci fosse una querela da parte «della proprietà» cioè il Comune, e ignaro di una causa civile in corso tra gli occupanti e la proprietà al momento dello stesso.
Il secondo chiede precisazioni circa il grado di efficacia delle «prevedibili reazioni» sulle quali era chiamato a svolgere il suo «servizio collaterale» di vigilanza: se la zona era stata “isolata” fin dalle prime fasi dello sgombero, la circolazione stradale, nel «medio raggio» di sua competenza non era stata deviata, prima del blocco sulla circonvallazione? L’ispettore capo risponde di aver prontamente lui stesso disposto il blocco e la deviazione del traffico da parte di una squadra della polizia municipale, entrata in azione in viale Liguria «circa venti minuti dopo» (ma non può esserne certo) che il traffico sulla circonvallazione era stato interrotto.
L’avvocato chiede poi all’ispettore capo, se astrazion fatta per i menzionati episodi d’«intemperanza» (il “fumogeno” e i “colpi contro il blindato” di via Troilo delle ore 9, “circa”; il cartellone pubblicitario messo di traverso non si sa bene se in via Gorizia o in via Vigevano, “intorno alle 13”; il «bidone» o «cestino» di rifiuti rovesciato in piazza della Scala, non si sa bene a che ora, comunque “nel tardo pomeriggio”) gli imputati, nel corso dei blocchi stradali e dei cortei di quella giornata, avessero avuto comportamenti in qualche senso e misura diversi rispetto a quelli di tutte le altre decine o centinaia di persone che vi prendevano parte, risponde di no.
Il terzo avvocato torna sull’episodio d’«intemperanza» di via Troilo: stabilito che il blindato dei carabinieri non aveva subìto danni in seguito ai colpi inferti, chiede all’ispettore capo se aveva notato e se ricorda che il blindato era passato “tra” i manifestanti con una manovra del cui azzardo quei colpi dovevano allertare il conducente, ed egli risponde di «non averci fatto caso».
Il secondo teste di accusa, sovrintendente, nel giorno dello sgombero era stato incaricato di funzioni di “osservazione”: le “operazioni di sgombero” si erano svolte in maniera «tranquilla», finché non si era raccolto un grosso numero di persone, «tutte per la maggior parte “facenti capo” o “riconducibili”» alle note «realtà antagoniste» della città, nei pressi del centro sociale. Poi, «intorno alle 9,30 circa», un blocco composto di una settantina di persone “travisate”, cerca di forzare il blocco dei carabinieri in via Troilo. Una di loro, “non travisata”, accende un fumogeno. Il “fronteggiamento” persiste, «senza scontri», per dieci minuti, interrotto dal passaggio del blindato dei carabinieri. È in questo momento che esso è “fatto oggetto” di calci e pugni, da parte dell’imputato del fumogeno.
Dopo questo «episodio», le proteste adottano le «solite tecniche» di «risposta prevedibile» alle azioni di sgombero: «il blocco del traffico veicolare e dei mezzi pubblici» su viale Liguria, protrattosi per «più di mezz’ora-tre quarti d’ora», il tentativo di blocco in piazza XXIV Maggio (che precisa essere stato neutralizzato dal preventivo blocco-deviazione del traffico), le azioni di “spostamento” di cassonetti e cartelli stradali allo scopo di «creare disagi»; menziona poi come memorabile «la corsa» dei manifestanti in corteo per impedire che un cordone composto da lui stesso e da altri colleghi ne «prendesse la testa»; quando gli si fa notare che tale episodio (nel quale «non si sono registrati “scontri”») di applicazione delle «solite tecniche» di «risposta prevedibile» non è agli atti, e non è oggetto delle denuncie, ci resta quasi male. Il pm gli mette davanti i rapporti da lui redatti al tempo, e in uno sforzo sovrumano di memorabilia il sovrintendente si sovviene di… «una mazza» – passata non si sa bene perché e percome, in quel mentre, tra le mani di un imputato e caduta, com’era giusto e auspicabile, tra la disattenzione generale!
Nel suo controesame, il primo degli avvocati difensori accerta che il sovrintendente non era a conoscenza dei motivi dello sgombero, ma era a conoscenza del processo civile ancora in corso tra occupanti e Comune, pur non conoscendone i dettagli. Alla domanda, se sia stata la Digos a disporre lo sgombero risponde di no, alla domanda «chi decide, in questi casi», farfuglia un «la Questura coordinata al comando Digos», che lascia tutti un po’ perplessi.
Il secondo avvocato torna sui “fatti (!) di via Troilo”: il sovrintendente definisce quel “fronteggiamento” come «una situazione tesa ma tranquilla»; il blindato dei carabinieri passò poi “tra” i manifestanti e uno degli imputati lo colpì con «calci e pugni».
Con questa testimonianza si conclude, almeno per quest’udienza, il “racconto” dei «gravi fatti» del 22 gennaio, giorno dello sgombero; il terzo teste, infatti, maresciallo dei carabinieri, “riferisce” per la giornata del 24, allorché si trovò “di scorta” lungo tutto il suo percorso (ci tiene a precisare: «non autorizzato») al corteo di «circa 3 mila» persone che, partito in «maniera tranquilla» da piazza XXIV Maggio, s’era lasciato dietro, appena svoltato l’angolo di via Molino delle Armi, una lunga serie di danni vistosi: bancomat “danneggiati”, scritte sui muri e sulle vetrine, per non dire dei soliti bidoni di immondizia rovesciati e cartelli pubblicitari «strappati», e di «tante altre cose» che ora «non ricorda».
È il pm stesso a far notare al maresciallo che il terribile ma generico “scempio” arrecato al decoro urbano sul quale si sta dilungando con dovizia d’impressioni e interezioni non è agli atti del processo in fieri, che non lo menzionano affatto [viene il sospetto che il maresciallo si stia sovvenendo di una sua qualche altra esperienza, visto che tale scempio è molto maggiore di quanto risulta dai resoconti degli organi e delle agenzie d’informazione solitamente inclini a drammatizzare ogni scoppio – foss’anche di risa – definendolo, crediamo non senza autocompiacimento, “bombacarta”]: difatti, quanto alla giornata dal 24 gennaio 2009, ben cinque persone sono imputate di aver preso parte a un “ben specifico” tentativo di rapina avvenuto in un negozio d’abbigliamento in via Torino, almeno un paio d’ore dopo dalla partenza del corteo e dalla fatidica svolta di via Molino delle Armi. È invitato quindi a farla corta, per andare ai fatti importanti di cui fu testimone: secondo la sua testimonianza, «alcune persone dal corteo» erano entrate nel negozio per «dar manforte» a «un soggetto tenuto fermo da un addetto della security» (quindi più che una “tentata rapina” sembra uno “sventato taccheggio”). Il «soggetto» si era poi «volatilizzato», mentre quelle «altre persone provenienti dal corteo» si erano date ad azioni di «danneggiamento» del sistema antitaccheggio del negozio. Una, in particolare, si era poi spinta fino alle minacce nei confronti dell’“addetto alla sicurezza”.
Però, di tutti questi “gravi fatti” dei quali è testimone d’accusa, il maresciallo non è testimone oculare, giacché egli si trovava a «circa 15 metri» dalla porta del negozio, ov’era intento a «tenere sotto controllo un’altra situazione» della quale «preferisce non riferire» (ma nessuno si sognava di chiedergliene). «Dalla sua visuale» ha notato, fra le tante che uscirono dal negozio, tre persone che solo «in seguito a un confronto con “i colleghi di polizia”» poté riconoscere e indicare in altrettanti degli attuali imputati – e la «ricostruzione dei “gravi fatti”» di quel 24 gennaio in via Torino, dovrà essere perciò l’oggetto di una prossima udienza.
Essendo già le 14,30, ed essendoci state alcune pause di sospensione durante l’udienza, la Corte è già informata del fatto che, sui siti degli organi e delle agenzie di stampa, già si dà risalto a quanto accaduto in mattinata raccontando della «vera e propria protesta» [come se le proteste potessero essere false e/o improprie!] inscenata «da alcune decine di giovani antagonisti» durante «il processo a carico di dieci ragazzi [e ragazze!] imputati in relazione agli scontri (!) avvenuti nel gennaio del 2009, quando venne sgomberato lo storico centro sociale» («Il Giorno»). È evidente che il cronista qui sparla per sentito dire: se fosse stato in aula avrebbe ben sentito i poliziotti parlare non di «scontri», ma di situazioni «tese ma tranquille» mai salite al livello dello “scontro”, e inframmezzate da «episodi d’“intemperanza”» ben calati in un contesto di «prevedibili reazioni». Ma ecco che il clamore che la «vera e propria protesta» seguita al respingimento della richiesta della difesa perché «uno degli imputati potesse seguire il processo fuori dalla gabbia» ha sollevato grazie agli svarioni di addetti alla cronaca manifestamente all’oscuro dei fatti di cronaca come di quelli “storici” già costituisce, per il giudice Raffaele Martorelli, motivo di apprensione circa il corretto svolgimento e la tenuta del decoro istituzionale per le udienze future.
A conclusione di un’udienza iniziata all’insegna del paradosso di uno spostamento di sede del processo in un’aula più grande per una udienza a porte chiuse e conclusa con quello di una “testimonianza giurata” non oculare ma per sentito dire, la Corte e i difensori hanno discettato a lungo e piuttosto animatamente – perlomeno rispetto a un dibattimento che, come il lettore di questo resoconto avrà recepito, si è trascinato stancamente sul triste canovaccio della rilettura a voce alta di rapporti resi all’epoca dei “gravi fatti” – sulla “cornice” entro la quale debba svolgersi la prossima udienza, fissata per giovedì 27 febbraio 2014, alle 9,30: spiega il giudice presidente dalla Corte che quel giorno nessuna delle grandi aule del tribunale di Milano capaci di ricevere, al contempo, un’accolita di solidali così numerosa e un imputato che si trova agli arresti in attesa di un altro processo seduto al banco degli imputati e non in gabbia.
A tutta prima, gli sembra che l’unico modo per garantire che entrambe queste condizioni siano soddisfatte sia quello di tenere l’udienza in… un’aula-bunker, e non un’aula bunker qualsiasi bensì in quella di Ponte Lambro, che primeggia tra i purtroppo numerosi e squallidi siti consimili della città, per dirla senza ambage, come “il più inculato”!
Tanto basta ai giudici della Corte per venire a più miti consigli: l’udienza del 27 febbraio si terrà in tribunale. nella stessa aula 6 della sesta sezione penale collegiale già definita “insufficiente” a garantire il carattere “pubblico” del processo penale, con la richiesta [non si sa se rivolta agli avvocati difensori, agli imputati, o “al pubblico stesso” – che però non è presente perché si dibatte a porte chiuse…] di un impegno acciocché “il pubblico” assuma contegni accettabili.
Al termine di una tale serie di nonsense (non esente, lo si sarà capito, da momenti di comicità e punte di ridicolo) – che avrebbe meritato da parte dei cronachisti almeno uno dei loro peana circa i modi nei quali il sistema della giustizia sperperi mezzi, tempo e denaro dell’erario con accanimento e protervia da stalker – s’impone come una nota tristissima la vera notizia del giorno che raggiunge a seduta ormai tolta, l’imputato sotto scorta: i giudici di Torino hanno disposto ch’egli non rientri nel carcere delle Vallette, ma in quello di Alessandria.
Stessa sorte è toccata nel corso della giornata anche agli altri tre arrestati del 9 dicembre.
Nei giorni successivi, il processo che li riguarda è stato fissato per direttissima al 14 maggio prossimo.
Ed è amaro il presagio che, data la spropositata accusa che pesa sulle loro spalle, le udienze di questo strampalato processo milanese saranno, di qui ad allora, tra le poche occasioni di mondanità per uno di essi.
1. Art. 472 ccp – Casi in cui si procede a porte chiuse: 1. Il giudice dispone che il dibattimento o alcuni atti di esso si svolgano a porte chiuse quando la pubblicità può nuocere al buon costume ovvero, se vi è richiesta dell’autorità competente, quando la pubblicità può comportare la diffusione di notizie da mantenere segrete nell’interesse dello Stato. 2. Su richiesta dell’interessato, il giudice dispone che si proceda a porte chiuse all’assunzione di prove che possono causare pregiudizio alla riservatezza dei testimoni ovvero delle parti private in ordine a fatti che non costituiscono oggetto dell’imputazione. Quando l’interessato è assente o estraneo al processo, il giudice provvede di ufficio. 3. Il giudice dispone altresì che il dibattimento o alcuni atti di esso si svolgano a porte chiuse quando la pubblicità può nuocere alla pubblica igiene, quando avvengono da parte del pubblico manifestazioni che turbano il regolare svolgimento delle udienze ovvero quando è necessario salvaguardare la sicurezza di testimoni o di imputati. 3-bis. Il dibattimento relativo ai delitti previsti dagli articoli 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-bis, 609-ter e 609-octies del codice penale si svolge a porte aperte; tuttavia, la persona offesa può chiedere che si proceda a porte chiuse anche solo per una parte di esso. Si procede sempre a porte chiuse quando la parte offesa è minorenne. In tali procedimenti non sono ammesse domande sulla vita privata o sulla sessualità della persona offesa se non sono necessarie alla ricostruzione del fatto. 4. Il giudice può disporre che avvenga a porte chiuse l’esame dei minorenni.
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Fuori dal gabbione, finalmente!
Processo Cox18 – Resoconto dell’udienza del 29 aprile 2014
L’udienza del 27 marzo, che avevamo annunciato nel nostro secondo resoconto, fu sospesa causa l’assenza per motivi di salute di uno degli imputati. La successiva si è tenuta il 29 aprile scorso, ancora a porte aperte nella “Maxiaula” della prima Corte d’Assise e alla presenza, come di consueto, di un folto drappello di compagni e solidali.
L’istanza degli imputati di poter conferire con il coimputato custodito in carcere dal 9 dicembre, presente in aula sotto scorta e rinchiuso nel gabbione, è stata dapprima respinta dalla corte, con una motivazione secondo cui «la tutela dell’imputato non risulta sufficiente» e «non esiste un diritto come tale a conferire per gli imputati cui debba in questa sede darsi corso»; al che la difesa ha reagito appellandosi al comma c dell’articolo 178 del Codice di Procedura Penale, che prescrive, a pena di nullità, l’osservanza delle disposizioni in merito a «l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato e delle altre parti private»; uno dei difensori ha poi argomentato che, sebbene non esista per gli imputati un “diritto a conferire”, non esiste neppure un divieto in merito, e che pertanto, in caso di divieto, la Corte è tenuta a fornirne le motivazioni specifiche.
La Corte delibera quindi l’ammissione dell’imputato sotto scorta al banco degli imputati, al fianco del suo difensore.
L’udienza inizia quindi con l’esame degli imputati, a cominciare proprio dall’imputato detenuto nel carcere di Alessandria, che è appena stato fatto uscire dal gabbione.
– In merito al “capo a” della richiesta di rinvio a giudizio («interruzione o comunque turbamento della regolarità del funzionamento del servizio di trasporto pubblico […] tra le ore 18 e le ore 19 (del 22 gennaio 2009, Ndr) in via Manzoni angolo via Verdi», cioè in piazza della Scala, ove gli occupanti del Centro Sociale Conchetta e centinaia di solidali si erano riuniti in presidio) l’imputato risponde che, al momento del suo arrivo su quella piazza, il traffico era già stato bloccato «dalla gente che sostava sulla carreggiata».
– In merito al “capo d” («in concorso tra loro e con altre persone non identificate, dopo essersi impossessati di capi di abbigliamento di valore non potuto accertare, sottraendoli all’interno del negozio Pirulì Pirulà [nome di fantasia, NdR] di via Torino ed ai dipendenti che li detenevano, hanno usato violenza, cercando di colpirlo con pugni e calci, nei confronti di Tal de’ Tali [nome di fantasia, NdR]. Addetto alla sicurezza del negozio, e con minacce, gridando che, se tale addetto non avesse lasciato fuggire la persona che si era impossessata della merce, avrebbero spaccato tutto il negozio»), l’imputato ha spiegato che, passando in corteo davanti al negozio, la sua attenzione era stata richiamata dalle urla e da altri segni di concitazione, provenienti sia dal marciapiede sia dall’ingresso del negozio stesso. Approssimatosi, aveva subito visto il suddetto addetto alla sicurezza del negozio costringere e trascinare verso l’interno una persona, a lui sconosciuta, tenendola per il collo. L’imputato afferma di avere reagito «d’istinto» avendo valutato, dall’espressione sofferente dello sconosciuto, il pericolo costituito da quella presa per la sua incolumità, e di essersi rivolto risolutamente all’addetto alla sicurezza, inizialmente con un «ma che cazzo fai?», poi con un «lascialo andare o succede un casino!» ma proprio perché questi interrompesse quella sua azione – paventandone l’obiettiva pericolosità.
A quel punto, l’imputato, ormai trovandosi all’interno del negozio, verso il fondo del quale l’addetto alla sicurezza era indietreggiato, nota che altre persone presenti stavano protestando contro l’addetto alla sicurezza. Proprio in quel momento lui stesso era stato preso alle spalle, sollevato di peso, e trasportato fin fuori del negozio da un non identificato esponente delle forze dell’ordine di notevole stazza, che a tutta prima gli aveva detto, apostrofandolo chiaramente per cognome: «se ti ci metti anche tu qui finisce male». Una volta fuori dal negozio, egli non aveva cercato di rientrarvi, anche perché vedeva chiaramente che parecchie altre persone ne erano uscite di corsa, e tra loro lo sconosciuto, riuscito a sottrarsi alla presa dell’addetto alla sicurezza; rinfrancato si era riunito al corteo ancora in corso.
Alla domanda se abbia notato «qualcosa» (cioè merci esposte del negozio, Ndr) tra le mani dello sconosciuto, l’imputato dice che, nel primo momento, non vi aveva fatto caso; nel secondo, quando era ormai all’interno del negozio, aveva notato nettamente gli sforzi fatti dallo sconosciuto per divincolarsi dalla presa che l’addetto alla sicurezza gli teneva intorno al collo con il braccio, sforzi che si traducevano nell’aggrapparsi, con tutte le forze e con entrambe le mani, libere, al braccio del molto più di lui possente addetto alla sicurezza.
Il secondo esaminato, imputato solo in merito al “capo a”, riceve domande e risponde, in sostanza, solo in merito al “capo d” prima citato.
Ella si trovava «nella parte finale del corteo», appena prima del “cordone di chiusura”, insieme a due amiche, una delle quali imputata per il “capo d”. Aveva notato una certa concitazione attorno a un folto capannello. Non l’aveva associata affatto a qualcosa di accaduto dentro un qualche negozio, ma a un qualcosa che doveva essere accaduto in strada, forse sul marciapiedi, a seguito del fatto che una scritta che era stata tracciata sul muro.
Preoccupate soltanto dal fatto che il corteo proseguisse senza attendere che i manifestanti addensatisi in quel capannello vi si riunissero, le tre si erano date da fare: l’imputata in merito al “capo d” aveva «rincorso» il “penultimo cordone” del corteo perché desse seguito a un “passaparola” di arresto del corteo fino al primo in testa, come in breve avvenne ; le altre due si erano invece avvicinare alle persone assembrate in capannello, non tanto per chiedere spiegazioni, ma con esortazioni tipo: «Dài, non fermiamoci qui, riprendiamo a sfilare». Essendosi risolta prontamente la “situazione allarmante”, né lei né le altre due amiche avevano ripensato a quell’episodio, se non un anno dopo, quando due di loro avevano ricevuto la prima comunicazione di denuncia. Solo allora avevano appreso che quei capannelli e quegli assembramenti erano legati ai fatti di cui al “capo d”.
Un altro imputato per i fatti di cui al “capo d” non si sottopone all’esame, ma rilascia la dichiarazione spontanea di «non essere mai entrato» nel suddetto negozio.
Con questa dichiarazione si chiude l’esame degli imputati e possono avere inizio le testimonianze dei cinque testi della difesa, nell’ordine l’avvocato difensore del Centro Sociale nella causa civile con il Comune di Milano ch’era in corso quando ebbe luogo l’azione di sgombero; un giornalista inviato de «La Stampa», presente il 22 gennaio 2009 durante e dopo lo sgombero stesso, e fino alle 17 circa, ora nella quale era andato a farne la cronaca in redazione; un giovane scrittore e un esponente del Centro Sociale; una partecipante al corteo del 24 gennaio 2009.
Il primo teste, riferisce della causa civile in corso dal 2007 tra il Centro Sociale e il Comune; si trattava di una “causa di accertamento” del diritto di usucapione, mossa dagli occupanti, essendo i locali del Centro occupati fin dal 1976. Nel gennaio 2009 la vertenza era ancora in corso. L’avvocato si trovava in tribunale, e proprio nella stessa “maxiaula” in cui si svolge questo processo, la mattina del 22 gennaio, quando fu raggiunto dalla notizia dello sgombero in atto. Recatosi prontamente in loco, aveva potuto accertare che, nessuna richiesta di sgombero era stata avanzata, in sede giurisdizionale. Rivoltosi ai funzionari Digos, aveva constatato che non vi era stata nessuna disposizione da parte della Questura di Milano o della Procura della Repubblica. Quanto alle istanze politiche, il Comune non aveva mai fatto richiesta di sgombero; l’allora vicesindaco Riccardo De Corato lo aveva prima “rivendicato” e successivamente “ritrattato”, fino ad arrivare a querelare per diffamazione un articolista del quotidiano «il manifesto» che lo aveva indicato come il «mandante» dello sgombero.
Detto altrimenti, con le parole dell’avvocato teste, quella dello sgombero fu «una decisione senza madri né padri». Perciò c’è poco da stupirsi se la mattina dello sgombero, nei pressi del Centro si era formato un corteo di protesta che aveva attraversato dapprima il quartiere e le zone limitrofe ed era poi confluito in piazza della Scala, davanti a Palazzo Marino, quando era in corso la seduta del Consiglio comunale.
D’altra parte, sottolinea il teste, la rioccupazione dei locali del Centro era avvenuta 35 giorni dopo lo sgombero «senza scontri e senza tensioni».
Il giornalista inviato de «La Stampa» arrivò in via Conchetta nella tarda mattinata del 22 gennaio. Alla domanda se avesse capito le ragioni dello sgombero, risponde che i funzionari della Questura da lui interpellati in merito gli avevano riferito di un intervento prefettizio in merito. Prosegue poi nella descrizione dei fatti susseguitisi nel corso della giornata, dello spontaneo formarsi di un corteo «improvvisato e frammentato», ch’era andato crescendo con lo scorrere delle ore, fino ad assumere, nel pomeriggio, le dimensioni di una manifestazione di carattere cittadino: al presidio in piazza della Scala erano presenti diverse centinaia, e forse più di un migliaio, di manifestanti e solidali. A precisa domanda della Corte, precisa che tutte le manifestazioni della giornata ebbero un carattere «pacifico», che il presidio era stato accompagnato da lanci di petardi e dagli interventi di esponenti del mondo della cultura e dello spettacolo che si erano susseguiti al microfono di un improvvisato “sound system” montato su un furgone.
Il giovane scrittore si presenta come un frequentatore-animatore del Centro fin dal 1982. Su richiesta della Corte si qualifica giustappunto come scrittore e editore. Quindi presenta il Cox come un centro sociale «storico», all’interno del quale, nel corso dei suoi oltre trentacinque anni di attività, si sono avvicendate e confrontate «varie generazioni». Ne descrive le attività politiche e culturali, e si sofferma sul carattere «semigratutito» di queste ultime.
Tanto il pm che la Corte, però, interrompono il suo discorso, vòlto a esaltare, in un quadro d’insieme, la ricchezza delle iniziative offerte dal Centro stesso, precisando che non il Centro e le sue attività costituiscono l’oggetto del processo in corso, ma i reati perpetratisi nei giorni 22 e 24 maggio 2009, dei quali la richiesta di rinvio a giudizio indica alcuni dei presunti responsabili.
Così incalzato, il teste, invitato a rispondere su quanto sa di quei due giorni, racconta di essere accorso in via Conchetta la mattina del 22 gennaio, e di esservi rimasto un paio d’ore, trovandovi un «situazione drammatica ma tranquilla». Successivamente, essendo stato designato come “addetto alla comunicazione” da parte del Centro in quel frangente, si era recato nel suo abituale luogo di lavoro, proprio per adempiere a questa funzione. Non ha quindi assistito al formarsi e allo svolgersi del corteo spontaneo nella mattinata ma era presente in piazza della Scala, nel pomeriggio; al presidio protrattosi per due ore avevano preso parte, a suo parere, «più di 500 persone».
Il 24 gennaio, durante la manifestazione, il teste si trovava tra le prime file di testa del corteo. Quando queste ultime erano ormai in fondo a via Torino, era stato chiamato, dal cordone del “servizio d’ordine” della “coda”. Tornato indietro, fino a trovarsi davanti al negozio sopra citato, aveva potuto constatare che il «trambusto» lì verificatosi, che gli era parso collegato a una scritta tracciata su un muro da un manifestante, si era ormai risolto. Davanti al negozio sostava ancora un folto gruppo di rappresentanti delle forze dell’ordine, tra i quali, a precisa domanda della Corte, risponde di non aver riconosciuto nessuno.
L’esponente del Centro Sociale, che su richiesta della Corte si qualifica come un lavoratore ospedaliero, e sottolinea come quella degli ospedalieri sia una componente importante dell’occupazione del centro sociale fin dai suoi inizi, è un suo frequentatore fin dal 1976. Volendo descrivere il tipo di attività svolte dal Centro nei decenni successivi, comincia a enumerarle, ricordando i concerti, le attività librarie ed editoriali della libreria Calusca e dell’Archivio Primo Moroni, il mercatino mensile di prodotti biologici. Anche sulla sua testimonianza il pm e la Corte premono, interrompendo anche agli avvocati della difesa nel corso della testimonianza, perché essa «si attenga» al procedimento penale in corso, che non vede imputato il Centro sociale e le sue attività.
Il teste obietta che, solo sulla base della lunga e articolata storia di quel luogo, si possono comprendere le reazioni a un’azione di sgombero avvenuta in assenza di alcun provvedimento formale che lo motivasse. I giudici della Corte si mostrano però molto incuriositi dal fatto che il Centro Sociale Cox18 si trovasse indicato tra i «luoghi raccomandati» sul sito Internet ufficiale del Comune di Milano.
Ad ogni modo, il teste non viene interrogato né in merito al “capo a” né in merito al “capo d” della richiesta di rinvio a giudizio, viene frettolosamente licenziato.
L’ultimo teste della difesa, è una manifestante del corteo del 24 gennaio 2009, e risponde in merito al “capo d”. Si tratta, per la precisione della terza componente del gruppetto che si trovava «nella parte finale del corteo», del quale ha parlato il secondo imputato esaminato. Nella sua testimonianza non fa che confermare quanto da questi dichiarato in precedenza.
La prossima udienza si terrà il 26 giugno, alle ore 9, nella stessa aula. In programma sono le arringhe del pm e degli avvocati difensori e, forse, il pronunciamento della sentenza.