Treni Sorvegliati

Titolo originale


Vingt ans après

Nautilus – Paris, 2003

Edizione italiana curata e aggiornata dal Collettivo La Commune

email: lacommune@inventati.org

web: http://www.immaginalacomune.net 

 

Treni sorvegliati (copertina)
 

 

Vige, a proposito dei conflitti degli anni Sessanta e Settanta, un dispositivo che implacabilmente vieta la parola a chi a quei conflitti ha partecipato non pentendosene, ossia senza barattare con ruoli istituzionali – nei giornali, nei partiti, nei sindacati, ad esempio – la propria abiura.

Abiura totale e radicale al punto da assumere la forma parodistica della conversione. Chi, invece, si è rifiutato di sottoporsi a questo procedimento inquisitorio, chi, cioè, si è sottratto all’ossessiva e sempre ribadita presa di distanza, non solo dagli eventi, ma dall’idea stessa della possibilità della radicale trasformazione dell’esistente è stato da destra e da sinistra indifferentemente trattato come il nemico, sul quale lo stato può impunemente esercitare la sua violenza e la sua vendetta.

Vendetta infinita, se è vero che i “rifugiati” italiani continuano a costituire un’emergenza sanabile solo seppellendoli, dopo trent’anni, in carcere, come ripetutamente pretendono vittime, giornalisti, politici e magistrati. La traccia, se pur labile, di una nuova lotta diventa l’occasione per evocare e rinnovare la “paura degli anni Settanta” e degli “anni di piombo” o, comunque, essa appare come un’intollerabile violazione delle regole della democrazia, divenuta ormai la forma politica più adeguata a rappresentare gli orrori dei nostri tempi.

 

 

 

 

Qualunque manifestazione, pertanto, che fuoriesca dalle regole saldamente stabilite, viene accolta come una “minaccia terroristica” che giustifica la guerra, dove quest’ultima – condotta dagli stati indifferentemente, ormai,all’interno contro i propri “cittadini” all’esterno – diventa forma di governo delle contraddizioni sociali. L’intollerante ideologia punitiva odierna, rabbiosamente veicolata dopo l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, si struttura fondamentalmente attorno a quattro assi portanti, i quali a loro volta si giustificano e si rinviano l’un l’altro precludendone ogni gerarchizzazione.

Primo: il tramonto dei concetti di rieducazione e riabilitazione della pena, qualunque sia il contesto del reato ed il tempo trascorso dal momento in cui è stato commesso.

Secondo: la tolleranza zero, cioè il ruolo centrale dell’incarcerazione ai fini del controllo sociale.

Terzo: il culto della vittima che designa ogni difesa dell’accusato come insopportabile affronto alla purezza e sofferenza della vittima, e propugna l’inasprimento ed il nonobli della punizione come necessaria e dovuta terapia al dolore della vittima stessa.

Quarto: il populismo giustizialista, più o meno indotto mediaticamente, assurto a fattore determinante delle politiche penali. Un’ideologia che, per quanto concerne i fenomeni di ribellione sociale, vede nei dispositivi penali e nei magistrati che li agiscono gli strumenti privilegiati, quando non unici, di regolazione attraverso la repressione pura e dura dei conflitti.Insomma, norme penali e magistrati non più strumenti neutri, terzi, fosse pure ipocritamente, di “risarcimento sociale”, ma scoperti mezzi e agenti di lotta, di parte. È sullo sfondo di questa vera e propria teologia della pena, del castigo infinito, che nell’agosto 2002, dopo vent’anni di esilio ufficialmente garantito e nei fatti consolidato, l’asilo dei “rifugiati italiani in Francia” viene bruscamente intaccato e rimesso in discussione. Pretesto formale è la fermezza richiesta dall’attualità della minacci “terrorista”, mezzo è la sepoltura della “dottrina Mitterrand”. Ipocrisie entrambe, dato che i fuoriusciti non sono certo più gente in armi attiva, e che la decisione politica mitterrandiana di non estradare riguarda un conflitto finito ed in sé non riproducibile di una ben determinata epoca passata. Si tratta invece di un’operazione di giustizialismo anacronistico applicato a scopi interni dai due Paesi interessati per ostentare quell’efficace collaborazione repressiva europea cristallizzata nell’illiberale e massimalista, e perciò giustizialista, “mandato di cattura europeo” (MCE), dal 2004 perno dello “spazio giudiziario europeo”, pur se non formalmente applicabile ai militanti attivi negli anni ’70/’80 perché la Francia ne ha arrestato la retroattività al 1993.

In proposito va osservato che è la medesima essenza giustizialista, e cioè l’appello a una giustizia rapida severa e sommaria nei confronti di chi si è reso colpevole di particolari reati, specie quelli di natura politica, che è agitata contro chi si macchia oggi di atti di contestazione radicale. Per cui, in fondo, la battaglia contro l’estradizione di un pugno di “vecchi compagni” e per l’amnistia dell’intera generazione sovversiva cui appartengono non è così anodina o marginale come può sembrare di primo acchito.

Norme procedure e mezzi di prova sulla cui base sono stati condannati i militanti di allora valgono pure per quelli di oggi. Infatti, l’emergenza italiana si caratterizza per la sua permanenza, visto che tutte le disposizioni repressive create in suo nome, ieri come oggi applicate da giurisdizioni normali, non comportano scadenze legate alla durata del pericolo che le ha originate, ma si sono stabilmente incrostate nei codici e fanno oramai parte solidale e irreversibile dell’ordinamento penale italiano.

Tutti questi dispositivi materialmente perenni tendono a rendere il detenuto politico il simbolo: del nemico sconfitto, della necessità della fermezza dello Stato, della rimozione degli eventi di cui è espressione. Nell’intento, malauguratamente più che avanzato, di tradurre le lotte sociali, quantomeno quelle dure, in termini criminali, di appiattire la “verità storica” sulla “verità giudiziaria”.

È in nome di questa democrazia nominalista che l’opzione giustizialista colpisce retroattivamente i “rifugiati italiani in Francia” sostenendo che non di guerra civile a bassa intensità si trattava allora, ma di unilaterale dichiarazione di guerra da parte di spietate associazioni a delinquere; dichiarandone comunque l’illegittimità perché l’Italia non era né la Grecia dei colonnelli né il Cile di Pinochet; e aggiungendo che la legislazione variamente premiale sui pentiti e la dissociazione escludono la necessità dell’amnistia.

Ed è per i medesimi motivi che le istituzioni europee hanno varato una serie di misure di cui il MCE costituisce il fulcro e la sintesi. In sostanza si tratta di provvedimenti (decisioni-quadro che presiedono all’armonizzazione delle legislazioni penali nazionali) che, da un lato, danno una definizione del “terrorismo” talmente aperta e articolata da coprire in pratica ogni tipo di reato, politico o no, commesso nello spazio europeo, e, dall’altro, semplificano ed accelerano, in sostanza automatizzano senza possibilità di ostacoli da parte del Paese richiesto, ogni eventuale procedura di estradizione fragli Stati membri dell’UE. Due le idee base: primo, la nozione di reato politico non ha più posto nell’UE; secondo, e senza passare per una previa un’armonizzazione dei sistemi penali nazionali, il mutuo e aprioristico riconoscimento delle decisioni giudiziarie dei Paesi membri dell’UE. Con la conseguenza apparentemente paradossale che, mentre si parla di declino dello Stato, ciascuno Stato membro estende senza intralci la sua mano giudiziaria su tutto il territorio dell’UE.

Le implicazioni che ne derivano sono più che inquietanti dato che, se scompaiono e il nemico politico e il reato politico, non possono più darsi né asilo né amnistia per un cittadino europeo.Un futuro non certo attrattivo né, si spera, supinamente accettabile.

L’episodio dell’oggi e il ricordo di ieri, pertanto, costituiscono una perfetta combinazione perché l’emergenza possa riproporsi all’infinito, perché possa mostrarsi il territorio della riserva che spetta a chi volesse rompere questa combinazione: il penale. Il risentimento e la vendetta alimentano una “cattiva memoria” deterrente di un “buon presente”, al punto che l’amnistia, l’abolizione dell’ergastolo e del 41bis non sono ascrivibili neppure alla possibilità del discutere, o che una richiesta di grazia o libertà di un detenuto dopo 35 anni di carcere, ancorché il suo nome sia Vallanzasca, scatena il pericolo per l’oggi, la sensazione dell’impunità, sensazione che, a questo punto evidentemente, può scomparire solo con la morte del reo.

In questo modo i fautori della moratoria contro la pena di morte, assicurano la pena fino alla morte.

Questo libro, allora, lungi dal rappresentare una resa alla memoria o il risarcimento malinconicamente offerto da una minoranza esigua a chi è costretto a vivere esiliato, si propone di ripercorrere a ritroso gli eventi, per rinvenire nel passato una indicazione del presente: la trascrizione giudiziaria di ogni conflitto, relegarlo nell’ambito del penale, è la modalità di governare le relazioni sociali, e in questo senso oggi non è diverso da ieri.

L’Italia degli anni Settanta è stato il luogo dove ha iniziato a essere sperimentata la possibilità che, come aveva ben visto Marx, lo stato d’eccezione diventi la regola, che, cioè, l’emergenza costituisca la normalità entro cui sono costrette le nostre vite.

Il penale, che dell’emergenza rappresenta un aspetto rilevante, appare non più e non solo forma di controllo e di repressione ma modalità che struttura la società, “cultura” della vendetta che ridefinisce il legame sociale attorno al desiderio della punizione ad ogni costo.

In quegli anni, allora, quando il conflitto ha posto effettivamente in questione il dominio feroce e disumano del capitale e dello stato, hanno preso corpo quelle misure emergenziali che, oggi, costituiscono gli strumenti a cui normalmente e largamente ricorrono gli stati per combattere il nemico di volta in volta prescelto.

I rom di Bologna, i lavavetri di Firenze, i giovani dispersi nei locali e nelle piazze di città e metropoli, i centri sociali, i precari, gli immigrati, i poveri non sono soggetti di relazioni sociali, produttive, umane, ma questioni di ordine pubblico, per loro si addicono ordinanze sindacali, decreti e sanzioni, persino l’espressione amorosa deve manifestarsi riproducendo gli stereotipi della “democrazia” spettacolare di volta in volta in voga, apponendo i lucchetti a ponte Milvio, perché, altrimenti espressa, scritta sui muri, costa tre mesi di carcere.

Rimovendo i caratteri sociali e politici dei conflitti dentro una società si mostra solo con tutta evidenza il motto gretto e imperante: “i trasgressori saranno puniti…” E allora i trasgressori di ieri e di oggi ci sono apparsi legati da un sottile filo, i treni, presi da tanti rifugiati anni fa, una metafora calzante.

Treni da sorvegliare perennemente perché portano con essi il virus della ribellione, non ha importanza se il virus, regredisce, muta, cambia natura, come nel film Cassandra Crossing, quei treni vanno accompagnati al precipizio.

Questo libro è la traduzione e l’arricchimento di un libro già pubblicato in Francia qualche anno fa. Oggi lo presentiamo articolato in sezioni. Nella prima sono presenti articoli che affrontano la soluzione politica in Italia, l’asilo politico in Francia, nonché lo spazio della legislazione in Europa; rivisitano le strade degli anni Settanta e rintracciano logiche, trasformazioni e comportamenti che impediscono di discutere di essi. Pur non condividendo in alcuni casi analisi e giudizi ci sembrano comunque che essi costituiscano un forte contributo alla rottura del silenzio e alla mera trascrizione giudiziaria di quegli anni…

Nella seconda sezione, specificamente sui rifugiati, sono raccontate le storie di Marina, Cesare, Paolo; il ricordo di Antonio, Alessandra e Sergio è segnato dal tempo infinito del risentimento superiore al loro tempo di vita. Alcuni articoli non sono volutamente firmati e non sono i rifugiati a parlare, ma altri parlano di loro. Come in un gioco di specchi i volti di ognuno appaiono confusi e indistinti ma con la responsabilità di rivendicare libertà per tutti e per ciascuno, e consapevoli che la nitidezza può essere data solo se movimenti sociali si fanno carico del conflitto di ieri e di oggi.

Nella terza sezione presentiamo contributi sulla questione dell’ergastolo, tematica che certamente necessita di più spazio e più attenzione di quanto riusciamo a darne in questo libro, ma abbiamo voluto fosse presente, perchè dentro il sistema del penale o meglio dentro la società penalizzata, l’ergastolo si erge a simbolo e parametro di “giustizia”.

Il libro vuole essere uno strumento di lavoro per riprendere dibattito e relazioni, per produrre e sostenere comportamenti conflittuali e antagonisti oggi, sapendo che solo la riappropriazione del presente fa riaffiorare una buona memoria.